Il libro di Giorgio Agamben Quel che resta di Auschwitz è una stimolante riflessione
sulla Shoah, su ciò che essa ha significato per l’etica e, più in generale, per
la comprensione dell’uomo, un libro che mette in moto i pensieri, con cui si
può essere d’accordo oppure no, ma che, comunque, non si può non considerare
una riflessione originale e intelligente su questo tragico fatto storico e
sulle sue implicazioni politiche, giuridiche e soprattutto morali. Rispetto all'etica Auschwitz ha rappresentato infatti la più radicale messa in
discussione dei suoi valori fondamentali, delle sue regole, d’oro e d’argento
che siano. Con un’immagine suggestiva, nell'Avvertenza che apre il suo studio,
Agamben si augura che alcuni problemi sollevati dall'analisi del fenomeno
Auchwitz, possano aiutare ad orientare futuri “cartografi” di una “nuova terra
etica” (pp. 9-10). E qualche riga sopra la crisi dell’etica tradizionale viene
annunciata con queste parole: “Come si vedrà, quasi nessuno dei princìpi etici
che il nostro tempo ha creduto di poter riconoscere come validi ha retto alla
prova decisiva, quella di una Ethica more Auschwitz demonstrata”(p. 9).
Auschwitz – osserva ancora lo studioso – rappresenta il
luogo di un esperimento ancora impensato: tutti i metalli dell’etica
tradizionale raggiungono il loro punto di fusione in quella che Levi ha
designato come “zona grigia”, un’incessante alchimia dove l’oppresso diventa
l’oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima (p. 19).
“Al di qua del bene e del male” si svolge la vita del campo
e non soltanto quella degli aguzzini e oppressori, nonostante la loro pretesa
di porsi “al di là del bene e del male”, ma anche degli oppressi, delle
vittime, di cui Primo, Levi nei due
libri che raccontano la sua prigionia ad Auschwitz-Monowitz, non esita a
registrare la completa perdita di quella dimensione umana e spirituale, su cui
le categorie etiche propriamente poggiano e si fondano. La dimensione dell’uomo
che sta alla base dell’etica, che ne è, per così dire, la condizione e la rende
possibile, è infatti quella di un essere
capace di trascendere la pura naturalità, la pura immediatezza. E’
quella di un soggetto libero. Solo in quanto eccede la dimensione propriamente
naturale, fisiologica, l’uomo è soggetto morale. La legge morale è infatti in
contrasto con la legge che regna sovrana in natura, con l’elementare legge del
più forte. Ma è la legge naturale del dominio, della sopraffazione da una parte
e dall'altra della conservazione di sé, la legge della sopravvivenza ad ogni
costo, quella che regna nel campo.
In quella gigantesca “esperienza biologica e sociale” che il
Lager rappresenta – scrive Levi – “esistono fra gli uomini due categorie ben distinte: i salvati e i
sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i
vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette,
sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più
numerose e complesse” (Se questo è un uomo, La Biblioteca di Repubblica, Torino
1958-2002, p. 94). Così muore lo spirito e, con esso l’etica, ad Auschwitz.
Scrive Agamben “Chi è passato nel campo, tanto se è stato sommerso quanto se è
sopravvissuto, ha sopportato tutto ciò che poteva sopportare – anche ciò che
non avrebbe voluto o dovuto sopportare” (p. 71).
Ma è in particolare il sommerso ad attrarre l’attenzione
dello studioso. Vediamo per quali motivi. Il libro si pone innanzitutto il
problema della testimonianza. Chi è il testimone? Chi può testimoniare, fino in
fondo, quanto è accaduto nei campi e nei centri di sterminio? La risposta di
Agamben è che il vero testimone, il “testimone integrale”, come Levi lo chiama,
non è il superstite, colui che, secondo le parole di Levi, “per prevaricazione,
abilità o fortuna” non ha toccato il fondo, ma il “sommerso”, chi “ha visto la
testa della Gorgona”. Ovvero, come lo si
chiama nel gergo del campo, il musulmano. Le testimonianze che possediamo,
essendo testimonianze di superstiti, presentano dunque tutte una “lacuna”, in
quanto il testimone vero, il testimone integrale non può deporre, perché o “non
è tornato per raccontare” la sua esperienza o è tornato “muto”. La
testimonianza del sopravvissuto è dunque “un discorso per conto di terzi”, un
parlare in “loro vece”, “per delega”. Ma – osserva Agamben – parlare di delega
non ha senso: i sommersi non hanno nulla da dire, non hanno storia, né volto,
né pensiero. La Shoah è pertanto “un evento senza testimoni”.
Chi è il musulmano? Secondo la rappresentazione e definizione che ne hanno
dato testimoni quali Levi, Wiesel,
Amery, Carpi, Bettheleim, e storici del calibro di Sofsky, Kogon, i musulmani,
erano morti viventi, cadaveri ambulanti. Affamati, degradati, appartenevano a
un regno intermedio tra la vita e la morte, tra l’umano e il non umano: non
erano – sintetizza Pier Vincenzo Mengaldo – né veramente vivi, né ancora morti,
né ancora veramente uomini, né del tutto non uomini.
Le descrizioni del musulmano concordano tutte nell'indicare
questo stadio cui, prima o poi, quasi tutti gli internati raggiungevano, come
“perdita di coscienza, di consapevolezza”, come il venir meno “della volontà di
vivere”, come “ripiegamento” e chiusura su se stessi. Nella “situazione
estrema”, nell’“esperienza limite” del campo, il musulmano, secondo Bettelheim,
è colui che “non resta un essere umano”, colui che non riesce a rimanere uomo.
C’è, secondo quest’autore, “un punto di non-ritorno”, una
sorta di discrimine morale tra umano e non umano, una soglia che il prigioniero
non deve mai varcare e oltrepassare, se vuole rimanere uomo. Quando perde ogni
senso di dignità, di rispetto di sé, di decenza, quando abdica anche all'ultimo
margine di libertà, quando rinuncia alla dimensione della coscienza, allora
l’uomo cessa di essere veramente uomo, muore spiritualmente e moralmente e
talora anche fisicamente.
La conclusione di Bettelheim ha come presupposto, che
l’umano, il propriamente umano sia lo spirituale, l’etico, ma è proprio questo
presupposto che Agamben vuole mettere in dubbio, in questione con la sua
riflessione su Auschwitz. Il musulmano, secondo l’autore, rende relativa
l’opposizione più consolidata del nostro pensiero, quella tra umano e non
umano. Per lui, il musulmano non deve essere escluso dall’umano: ha perduto
ogni dignità e rispetto di sé, ma rimane un uomo. La “nuova terra etica” è
dunque proprio il musulmano, per cui occorre cercare un’etica nuova, che inizi
dove finiscono rispetto e dignità, dove si estingue lo spirito, dove finisce,
cioè, l’etica tradizionale. Alla luce
dell’esperienza estrema del campo, al cospetto del musulmano, di colui che, pur
ridotto alla nuda vita biologica, rimane ancora un uomo, l’etica tradizionale,
del resto, con le sue idee di rispetto di sé, dignità, decenza, contegno, buone
maniere, educazione, appare solo un’ “inutile commedia”, una “finzione”, che ci
fa sorridere, così come, in una famosa scena del Malte, i barboni di Parigi,
ammiccando e sogghignando, se la ridono del tentativo del protagonista di darsi
un contegno, di apparire, a motivo del colletto pulito o delle mani lavate e
curate, diverso da loro.
Ciò che con studio di secoli la riflessione morale aveva
cercato di escludere dall'umano, riappare nel ghigno dei barboni e nella figura
estrema del musulmano, e, come il poeta, anche noi temiamo di essere
riconosciuti dai reietti come uno di loro, temiamo di riconoscerci in loro, di
scorgere in loro, ciò che alla fine resta dell’uomo, e quindi il propriamente
umano.
Commenta Agamben: “Forse mai prima di Auschwitz, il
naufragio della dignità davanti a una figura estrema dell’umano, e l’inutilità
del rispetto di sé di fronte all'assoluta degradazione sono state descritte con
tanta efficacia. Un filo sottile collega le “bucce d’uomini” temute da Malte
agli “uomini guscio” di cui parla Levi. E la piccola vergogna del giovane poeta
di fronte ai barboni di Parigi è come una sommessa staffetta che annuncia la
grande, inaudita vergogna dei superstiti di fronte ai sommersi” (p. 56). Jean
Amèry ha descritto molto bene lo scandalo dell’intellettuale, dell’uomo di
spirito, avvezzo alla riflessione morale, posto a confronto con l’assurda
esperienza del Lager, che gli si
presenta in “stridente contrasto con tutto ciò che sino allora egli aveva
considerato possibile e accettabile dall’uomo” (J. Améry, Intellettuale a
Auschwitz, Torino 1987, p. 40). Essa gli appare sconcertante, incomprensibile
perché immorale e, viceversa, immorale e
inaccettabile perché assurda. “All’inizio – scrive – per lui valeva una
sorta di folle saggezza ribellistica secondo la quale certamente non può
esistere ciò che non è lecito che esista” (ivi, p. 41).
All'amaro stupore e sconcerto, agli scongiuri di rito, del
tipo: “non può essere”, spesso, però,
poi seguiva nell'anima dell’intellettuale, una volta costretto a riconoscere come “possa esistere ciò che non
deve esistere”, con il crollo della sua
prima resistenza interiore, un mettere in questione e poi un rifiuto dei valori
morali: “Sì, se le SS potevano agire come agivano: non esiste alcun diritto
naturale e le categorie morali vanno e vengono come le mode” (ibidem).
“La vergogna è il sentimento dominante dei sopravvissuti”
(p. 81) scrive Agamben e cerca di capire le ragioni di questo, di primo
acchito, inspiegabile sentire. Scarta immediatamente la spiegazione che i
superstiti, nella quasi totalità, danno di questo sentimento, di questa
tonalità emotiva, riconducendola a un vago “senso di colpa” per esser vivi al
posto di un altro.
Esclude anche che il senso di colpa del testimone possa essere interpretato nei termini di un
conflitto tragico. Secondo la celebre interpretazione hegeliana del tragico,
l’eroe diviene colpevole non volontariamente, non intenzionalmente, ma
fatalmente (p. 89). C’è dunque un conflitto tra innocenza soggettiva e colpa
oggettiva, e tragico è l’atto mediante il quale l’eroe plasticamente assume
incondizionatamente su di sé le colpe che è stato destinato a compiere.
Ora il Befeflnotstand, lo “stato di costrizione conseguente
a un ordine”, invocato da Levi a proposito dei membri del Sonderkommando, il
gruppo di prigionieri ebrei condannato a servire alle camere a gas e ai forni
crematori, con l’invito a sospendere ogni giudizio riguardo alla loro condotta,
e poi invocato dagli avvocati degli ufficiali nazisti (Eichmann e Stangl) per
scagionare i loro i clienti, per giustificare le loro azioni, rende, secondo
Agamben, “impossibile ad Auschwitz ogni conflitto tragico”. Non c’è più qui infatti assunzione di una
colpa oggettiva da parte di un eroe soggettivamente innocente. Il superstite
“Con un’inversione che rasenta la parodia, si sente innocente esattamente per
ciò di cui l’eroe tragico si sente colpevole e colpevole là dove questi si
sente innocente” (p. 90). Che non ci si vergogni poi per essere sopravvissuto
ad un altro, lo prova, secondo lo studioso, al di là di ogni dubbio, un
episodio riportato da Antelme. Durante le folli marce a cui le SS, incalzate
dagli alleati, sottoponevano i prigionieri per trasferirli da un campo
all’altro, venivano fucilati lungo il tragitto tutti coloro che ritardavano il
cammino. Talora, tuttavia, le vittime venivano scelte a caso, senz’altra logica
che quella del terrore. Un giorno la scelta cade su un giovane studente
italiano, che, per la vergogna, arrossisce violentemente. Ebbene, riflette
Agamben, egli non arrossisce per la vergogna di
sopravvive ad un altro, ma per la vergogna di “dover morire” e il
sentimento che egli prova in quel momento richiama alla memoria la vergogna da
cui è assalito Josef K nell’ultima scena del Processo, quando viene brutalmente
assassinato e sta per “morire come un cane”. Dunque cos’è la vergogna? Non è la
consapevolezza di un difetto, di una manchevolezza, di un’imperfezione da cui
prendiamo le distanze, come vorrebbero i moralisti, ma, piuttosto, secondo
l’analisi di Emmanuel Levinas, un non poter prendere le distanze, un “essere consegnati
a un inassumibile” (p. 97). Essa si fonda dunque sull’impossibilità di
desolidarizzarsi da sé del nostro essere, sulla sua incapacità di rompere con
se stesso e presuppone un doppio movimento di soggettivazione e di
desoggettivazione.
“Essa – annota Agamben – è nulla di meno che il sentimento
fondamentale dell’esser soggetto, nei due sensi – almeno in apparenza opposti –
di questo termine: essere assoggettato e essere sovrano” (p. 99). In questa
prospettiva viene interpretata la vergogna che Ettore prova dinnanzi al seno
nudo della madre, in quanto essa è insieme un guardare ed essere guardato, è
come l’esperienza di “assistere al proprio esser visto e di essere preso a
testimone di ciò che si guarda”. Ma torniamo alla questione centrale. Levi, lo
ricordo, scrive : “Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri [...], sono
loro, i “musulmani” i testimoni
integrali; ma chi ha visto la Gorgona, chi ha toccato il fondo, non è tornato
per raccontare, o è tornato muto. Sono loro la regola, noi l’eccezione. Noi,
toccati dalla sorte, abbiamo cercato [...] di raccontare non solo il nostro
destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un
discorso per “conto terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non
sperimentate in proprio”. La testimonianza, commenta Agamben, tirando le
conclusioni, costituisce allora un
processo assai complesso che coinvolge almeno due soggetti: il primo, il
superstite, che può parlare ma che non ha niente d’interessante da dire, e il
secondo, colui che ha toccato il fondo, e ha perciò molto da dire ma non può
parlare. Pertanto conclude Agamben occorre intendere la testimonianza come un
atto di autore (p. 140), che implica e comporta sempre una dualità
essenziale, e che consiste nel portare a
compimento, integrare, perfezionare un’insufficienza, un’incapacità di
testimoniare. Il soggetto etico è dunque – scrive lo studioso – quel soggetto che testimonia di una
desoggettivazione (p. 141).
Etico è testimoniare per colui che non può testimoniare,
integrare e compiere ciò che altrimenti resterebbe incompiuto.
molto giusto
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