mercoledì 22 febbraio 2017

Rivolta o rivoluzione? Da Camus a Holloway



Articolo di Cristina Cecchi su MicroMega



La Storia altro non è che lo sforzo disperato degli esseri umani 

di dar corpo al più chiaroveggente dei loro sogni.
Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2016

Cambiare il mondo senza prendere il potere. 
Il significato della rivoluzione oggi, 
John Holloway, Cantieri: Carta/Edizioni Intra Moenia, Roma-Napoli 2004

Primavere arabe, Occupy ovunque, banlieu in fiamme e vittoriosi referendum antiausterity: non passa anno senza che gli ottimisti salutino La rivoluzione è vicina, il Capitale è spacciato. Anno dopo anno, i non immemori sanno: Neppure questo è il tempo della rivoluzione.

Il mondo critico si divide in:
 - chi ancora spera e si adopera per trasformare la speranza in realtà
 - chi caparbiamente lotta per mantenere integra almeno la propria dignità

(I disperati votano Trump e i furbi lavorano in una banca d’affari, ma qui non interessano.)

Nessuna delle due posture è nuova. Ed è bene così, perché l’esperienza consente di evitare l’eterno ritorno dell’errore. Quando il materialismo storico si è materializzato nella storia non conosceva la sconfitta; quando si è fatto rivoluzione e la rivoluzione si è fatta Stato e lo Stato si è fatto di nuovo tirannia, la sconfitta si è impadronita di chi padroni non ne voleva, di chi da allora non ha smesso di dire No soltanto tra sé e sé. A voce e testa alta, ma tra sé e sé.

Celebre l’incipit dell’Uomo in rivolta di Albert Camus (1951):[1] 
«Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi». 
La rivolta è una negazione che afferma. È un No che libera da per rendere liberi di. È destruens e construens in un unico movimento. Il No può essere pronunciato silenziosamente oppure ad alta voce; in ogni caso, il primo destinatario di questo messaggio è l’individuo stesso che lo emette. Il No consegue a una subitanea presa di coscienza e stabilisce il limite che l’individuo non può tollerare venga oltrepassato senza che i suoi propri diritti siano violati. Perciò è negazione e insieme affermazione: 
«Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull'impressione, nell'insorto, di avere “il diritto di…”. Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione».
La rivolta è il moto che nasce dalla ripulsa provata al cospetto di una condizione ritenuta ingiusta e che si sviluppa per opporre ciò che è preferibile a ciò che non lo è. Fondamentale, per Camus, è precisare che si insorge non solo per rivendicare una condizione migliore per se stessi: la rivolta, benché nasca in quanto c’è di più strettamente individuale nell’umano, è superamento dell’individuo in un bene ormai comune, perché affermazione di un diritto che trascende il singolo; l’insorto agisce, anche a costo della sua stessa vita, in nome di un valore (relativo, ovviamente) che sente di condividere con tutti gli umani. 
La rivolta sottrae l’individuo alla solitudine e all’assurdo, allo straniamento dato dal nonsenso dell’esistenza, e ne fa un essere solidale e partecipe della comunità: la sofferenza individuale diviene peste collettiva. Dunque ci si rivolta non per sé, ma per tutti; prova ne è che 
«la rivolta non nasce soltanto e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione di cui è vittima un altro», 
e non solo per empatia, ma soprattutto per la percezione che un diritto ritenuto universale è stato violato. In definitiva, per Camus la rivolta è 
«Lotta per l’integrità di una parte del proprio essere». Di più: dato che l’umano non è se non in relazione agli altri umani, e dato che «La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta», la rivolta è una qualità distintiva metafisica, dello stesso ordine del cogito cartesiano: «Mi rivolto, dunque siamo».
Ma il pensiero informato alla rivolta non sempre consegue in atti fedeli alla sua primigenia nobiltà: talvolta, «per stanchezza e pazzia», se ne scorda, «in un’ebbrezza di tirannia o di servitù»
«Al principio, l’uomo in rivolta voleva soltanto conquistare il proprio essere e mantenerlo in faccia a Dio. Ma perde la memoria delle proprie origini e […] eccolo in marcia per l’impero del mondo attraverso uccisioni moltiplicate all’infinito.» 
Quando lo spirito di rivolta metafisica entra nella storia e raggiunge il movimento rivoluzionario («la rivoluzione non è altro che il logico sviluppo della rivolta metafisica»), lo spirito rivoluzionario prende la difesa di quella parte dell’uomo che non vuole inchinarsi e tenta di dargli un suo regno nel tempo. Così Camus enuncia la distinzione tra rivolta e rivoluzione: 
«[La rivoluzione] è l’inserzione dell’idea nell’esperienza storica mentre la rivolta è soltanto il moto che porta dall’esperienza individuale all’idea»; 
la rivolta è una protesta oscura che non coinvolge il sistema, mentre la rivoluzione è un tentativo di modellare l’atto sull’idea, di foggiare il mondo entro un’inquadratura teorica. Se però l’umano cede alla supremazia dei mezzi sul fine, la rivoluzione prende le armi e si assume la colpevolezza totale, cioè l’omicidio e la violenza
«La rivoluzione, anche e soprattutto quella materialista, non è nient’altro che una crociata metafisica smisurata». 
Con la tecnica della conquista del potere per la realizzazione dei fini ultimi, poi, la rivoluzione diventa impero, una nuova tirannia che si sovrappone all'antica sotto le false insegne della speranza; ma Camus denuncia: non esiste alcuna differenza sostanziale tra la tirannia reazionaria e la tirannia progressista. Terribili e definitive come una pietra tombale sono le parole che spende per la Rivoluzione russa, «la più grande rivoluzione che la storia abbia conosciuta» – parole che gli valsero la rottura con Sartre e l’isolamento in cui restò fino alla morte –: rivoluzione totalitaria, socialismo militare, giacobinismo russo, terrorismo di Stato, rivoluzione tradita, ingiustizia trionfante nella storia. Lenin cercò di attuare l’eguaglianza umana mediante la conquista dei poteri dello Stato, spingendosi ben oltre quella provvisoria dittatura operaia già contraddittoriamente prevista da Marx: «Dal regno della massa, dal concetto di rivoluzione proletaria, si passa dapprima all’idea di una rivoluzione fatta e diretta da agenti professionisti», sicché il proletariato si identifica con i suoi capi, per poi annunciare che non si può prevedere il termine di tale stato provvisorio e che per giunta nessuno s’era mai sognato di promettere che avrebbe avuto fine. Così la rivoluzione è «condannata, per durare, a negare la propria vocazione universale», «vive su princìpi falsi», e il rivoluzionario «non è più Prometeo, è Cesare». Un decimo dell’umanità esercita un’autorità illimitata sugli altri nove decimi; questi perdono la loro personalità e divengono un gregge costretto all’obbedienza dei nuovi signori e padroni, alla servitù delle nuove élite che hanno sostituito le precedenti. Ma quando la rivoluzione diventa schiavitù, la rivolta è morta. La più rigorosa formulazione teorica di Camus dell’idea di rivoluzione si conclude quindi nell’amarezza: «Teoricamente, la rivoluzione è un cambiamento delle istituzioni politiche ed economiche atto ad affermare più libertà e più giustizia nel mondo», ma empiricamente questa utopia assoluta si è sempre autodistrutta, muovendosi secondo le leggi del potere e del dominio e dunque non distinguendosi in alcun modo dal potere e dal dominio che ambiva a cancellare. 
«La parola rivoluzione serba il senso che ha in astronomia. È un movimento che chiude l’orbita, che passa da un governo all’altro dopo una traslazione completa. […] Ma per le stesse ragioni, si può dire che non c’è ancora stata rivoluzione definitiva. Il movimento che sembra concludere l’orbita già ne inizia un’altra all’atto stesso della costituzione di un nuovo governo. Gli anarchici, Varlet in testa, hanno visto bene che governo e rivoluzione sono propriamente incompatibili.» 
Nessun governo può essere rivoluzionario: è una contraddizione in termini. Dato che non si è ancora trovata una via a una rivoluzione che non diventi la negazione di se stessa, una via alla rivoluzione definitiva, e che tutte le occasioni storiche in tal senso sono andate sprecate, la conclusione è una: 
«Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo almeno a vivere il tempo della rivolta. Saper dire no, sforzarsi, ciascuno nel posto che occupa, di creare quei valori vitali senza i quali non potrà esserci alcun rinnovamento, conservare ciò che vale dell’essere, preparare quanto merita di esistere […] ecco alcune buone ragioni di rinnovamento e di speranza». 
Una postura metafisica e politica valida a metà xx secolo tanto quanto a inizio xxi.


Il filosofo radicale John Holloway, in Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi (2002, 20102),[2] raccoglie il testimone di Camus e prova a portarlo oltre. Il grido di angoscia del singolo trova la sua catarsi in un coro di dissenso collettivo. Dalla percezione dell’ingiustizia, del divario tra ciò che è e ciò che potrebbe e anzi dovrebbe essere, nasce la rivolta. Il «Mi rivolto, dunque siamo» di Camus è per Holloway un «noi gridiamo», dal quale prende le mosse la lotta per la trasformazione sociale. Questa, tuttavia, non può passare per le armi o per la fondazione di un partito (più o meno d’avanguardia) e la vittoria elettorale: la militarizzazione o la burocratizzazione del sogno rivoluzionario tradiscono il movimento da cui esso ha origine e rendono il rivoluzionario identico a tutti gli altri potenti della storia, come l’Unione Sovietica insegna. Sin qui, verrebbe da dire, Holloway è camusiano. 
Preso atto del fallimento storico della rivoluzione, tuttavia, Holloway rifiuta di considerare la ritirata nella sfera della dignità personale una valida opzione in attesa di tempi migliori: non c’è rifugio in un mondo ingiusto. Il grido che si rivolge a se stesso rimane disperazione o si riduce a un frustrante brontolio cinico. Bisogna imparare la speranza, trasformare la rabbia e il rifiuto dell’ingiustizia in lotta, ma cessare l’identificazione tra rivoluzione e conquista del controllo dello Stato. La riflessione di Holloway si concentra dunque sulla questione del potere.

Ogni rivoluzione che abbia teorizzato o sperimentato la conquista del potere statale ha fallito: non si può cambiare un sistema servendosi dei suoi stessi mezzi, né si può prendere il potere per abolirlo. La lotta contro il potere non può in alcun momento coincidere con la lotta per il potere, in quanto la presa del potere da parte di alcuni ne comporta la cessione da parte di altri, e tale alienazione della sovranità inevitabilmente conduce alla rovina anche il migliore dei tentativi. 
Questa è quindi la sfida rivoluzionaria del xxi secolo: cambiare il mondo senza prendere il potere. Come? Holloway distingue due ordini di potere: il poter fare e il potere su

Il poter fare è creatività, ovvero facoltà, capacità, possibilità di fare, un tratto distintivo e fondante dell’umano. Ma non esiste un fare del tutto individuale; esso è intrinsecamente sociale, plurale, collettivo, corale, comune, perché tutto ciò che l’individuo fa è parte di un flusso sociale del fare in cui condizione preliminare del fare di uno è il fare o l’aver fatto degli altri, senza che si possa dire dove finisce uno e inizia l’altro, tanto sono intrecciati. Il fare, dunque, costituisce il passaggio da io a noi, e il modo in cui esso è organizzato determina il modo della socialità. 

È quando il flusso sociale del fare si frattura che il poter fare diventa potere su (Negri direbbe forse che il potere costituente diventa potere costituito): alcuni si appropriano del diritto di decidere del poter fare altrui, cioè lo alienano; allora il noi cessa di essere collettività e diventa un io sugli altri, i quali sono espropriati del loro originario poter fare, privati della capacità di realizzare i loro progetti perché impegnati a realizzare quelli altrui – vale a dire, sono disumanizzati. Per la maggior parte degli umani dunque il potere si converte nel suo opposto: non è più la capacità di fare, bensì l’incapacità di fare, l’essere dominati. 
«L’esistenza del poter-fare come potere-su significa che l’immensa maggioranza di coloro-che-fanno sono trasformati in oggetti del fare, la loro attività si trasforma in passività, la loro soggettività in oggettività.» 
Se il poter fare è unificazione tra gli individui che costituiscono il corpo sociale, l’esercizio del potere su è invece separazione. Così la storia diventa la storia dei potenti, una storia di antagonismo, dominazione e soprattutto furto: la dominazione è il furto di ciò che viene fatto a colui che fa, il furto del poter fare, l’alienazione di ciò che dovrebbe essere inalienabile. La rivoluzione, per converso, è liberare il poter fare dal potere su; non la lotta di un potere su contro un altro potere su, che genererebbe solo altra alienazione e dominazione, ma la lotta del poter fare contro il potere su, per riaffermare il flusso sociale del fare, contro la sua frammentazione e negazione. 
«La lotta per liberare il poter-fare non è la lotta per costruire un contro-potere, ma piuttosto un antipotere, qualcosa che sia radicalmente diverso dal potere-su. Le concezioni della rivoluzione che si concentrano sulla presa del potere di solito sono incentrate sulla nozione di contro-potere. La strategia consiste nel costruire un contro-potere, un potere che possa opporsi al potere dominante. Spesso il movimento rivoluzionario è stato costruito come una immagine speculare del potere, esercito contro esercito, partito contro partito, con il risultato che il potere si riproduce all’interno della stessa rivoluzione. L’anti-potere dunque non è contro-potere ma qualcosa di molto più radicale: è la dissoluzione del potere-su, l’emancipazione del poter-fare.» 
Questa è la conclusione di Holloway. Il quale, tuttavia, non spiega come raggiungere l’obiettivo così lucidamente individuato; proverei dunque a ricostruire il modus operandi a partire dagli spunti che il filosofo dissemina qua e là nella sua opera. La società trasformata è una società nella quale le relazioni di potere sono dissolte e la comunità creata dal flusso sociale del fare torna a esistere. Del fatto che il potere su non è un dato di realtà, che ci si può riappropriare del poter fare, però, bisogna prendere coscienza; ma come la lotta non può essere condotta da alcuni per il bene di tutti, così, per non ricadere nell’errore, la presa di coscienza non può essere il risultato di una pratica politica monologica, con trasmissione unidirezionale dall’avanguardia illuminata alla massa: il soggetto critico deve autoemanciparsi, la presa di coscienza deve essere in verità un processo di autocoscienza. Questo sarebbe il primo passo verso la liberazione del poter fare; in seconda battuta verrebbe la forma più semplice e meno spettacolare di lotta: l’insubordinazione, vale a dire una resistenza attiva, il rigetto dell’alienazione nella pratica quotidiana, l’opposizione concreta al furto della dignità. Tale insubordinazione inarticolata, senza volto e senza voce, sarebbe la materialità dell’antipotere, la base della speranza, l’inizio della rottura del circolo della sottomissione e della dominazione. La quale poi, quando si costituisca come comunità in lotta, visibile e articolata, diventerebbe rivoluzione. Solo così essa potrebbe non tramutarsi nel suo opposto: se fosse cooperazione di una comunità in lotta nella sua totalità, senza patrizi e plebei della ribellione; vale a dire, se mezzi e fini coincidessero.

Da questa prospettiva, la dicotomia tra rivolta e rivoluzione appare sfumata. È vero, Camus sostiene che non sia il tempo della rivoluzione e opta per la rivolta, intesa nel senso – tutt’altro che nichilistico – di movimento dell’essere a partire dal quale riprendere slancio e rinascere con una rivoluzione finalmente fedele alla rivolta: «invece di uccidere e morire per produrre l’essere che non siamo, dobbiamo vivere e far vivere per creare quello che siamo». Holloway, invece, sostiene con determinazione che custodire «una dimora essenziale e non alienata nei nostri cuori» non sia una reazione sufficiente all’alienazione, che non si debba rinunciare a lottare qui e ora, insieme, per la ricostituzione dell’umanità. Ma per entrambi – senza dottrine, regole o ricette, senza ideologie e ortodossie, senza cedere alla rassegnazione e senza incorrere in facili ottimismi –, dopotutto, l’unica speranza è costruire comunità parziali, capaci di separarsi con audacia dal pensiero unico e ricreare spazi forse solo temporaneamente liberati, isole di resistenza, piccole antisocietà fraterne e ribelli. La differenza tra le due prospettive sta nel punto in cui si situa, sull'asse cronologico, l’attesa della trasformazione, e la ricaduta che questo ha sul modo in cui si vive la propria esistenza politica nell'oggi. In ogni caso, a me pare che la dialettica tra queste posture sia attualmente il più alto punto di osservazione da cui scrutare il presente, perché genera i poli tra i quali ciascuno di noi si trova a muoversi.

Come ho detto da principio, non intendo occuparmi qui di chi ripiega sui nuovi fascismi, né della nutrita schiatta di coloro che credono di avvantaggiarsi votando neoliberismo. C’è invece chi si colloca al polo estremo della resistenza individuale, facendone una pratica quotidiana di rifiuto: vive con il minor numero possibile di lampadine accese e il riscaldamento basso, per non consumare, per non dare il proprio contributo alla devastazione del pianeta, e fa scrupolosamente la raccolta differenziata mentre ripete a se stesso il tempo del socialismo non è adesso, e poi è meglio averlo come orizzonte di attesa, come aldilà laico a cui tendere, un domani che fornisce un’illusione di senso all’oggi, sì, è meglio se non si realizza – e intanto si indigna, anzi, si rivolta, ma a denti stretti, tra sé e sé; non è una posizione neutrale, anzi, è molto intransigente, ma di un’intransigenza circolare e autotelica che rischia di sfociare in senso d’impotenza e rassegnazione. Al polo opposto c’è chi prova a trasformare l’insubordinazione inarticolata in lotta collettiva: l’ultimo tentativo in tal senso, nello scacchiere internazionale, mi sembra sia quello attuato da Varoufakis con la creazione del movimento Diem25. Certo i tempi sono molto cambiati da quando scriveva Camus, e verrebbe da dire che, se non era allora il tempo della rivoluzione, men che meno lo è adesso; ma, si sa, Camus è «filosofo del futuro», quindi non c’è da meravigliarsi che abbia anticipato i tempi. All’ormai conclamata e pluridecennale crisi dell’identità politica antagonista e all’assenza di un solido referente organizzato nella sinistra internazionale e nostrana – persino Livorno adesso ha un sindaco pentastellato – si somma ora la disaffezione dei cittadini verso i partiti di centrosinistra e centrodestra, proni alle politiche imposte dall’Unione monetaria europea, e viceversa la speranza riposta in forze estreme ancorate alla sovranità nazionale, con il paradosso che movimenti xenofobi si ritrovano a essere considerati i paladini della democrazia. Varoufakis, sorpassando a sinistra i populismi, un anno fa ha creato «un’internazionale progressista contro l’internazionale neoliberista», un movimento paneuropeo che attualmente risulta lo spettro più radicale che si aggiri per l’Europa. Contro i Le Pen come contro le Goldman Sachs, Diem25 prende atto della perdita di fiducia nei confronti dell’establishment e dello spettacolare fallimento della sinistra nell'interpretare il disagio sociale – 
«La sinistra non è, da sola, in condizioni di offrire le infrastrutture per dare una risposta con cui combattere le cause di questa crisi» –[3] e rimette al centro la parola «alternativa». «Non vogliamo essere un ennesimo partito di sinistra», «abbiamo ben presente che se diventassimo un gruppo d’élite o di ceto polito, ci suicideremmo: vogliamo andare nella direzione opposta, cioè parlare alle persone, anche a quelle che non hanno mai fatto politica, sulla base delle nostre proposte e di quelle che emergeranno nel lavoro comune»
Varoufakis sembra far proprie le lezioni duramente impartite dalla storia (anche a lui medesimo) e cerca di evitare di costituirsi come contropotere anziché antipotere, come entità che mira alla conquista del potere su anziché emancipare il poter fare. E infatti alla domanda «Diem si presenterà alle elezioni?» risponde: «Intanto mi lasci dire che siamo un movimento europeo vero, non una federazione di partiti nazionali: ogni decisione viene presa dai nostri iscritti (al momento circa 40 mila) attraverso una consultazione on line a cui si vota ugualmente in tutti i Paesi. […] Per quanto riguarda gli appuntamenti elettorali, a noi interessano i contenuti, le proposte, le idee per affrontare la crisi. Quindi valuteremo in ogni Paese se ci saranno interlocutori che facciano proprie le nostre proposte o se si renderà necessario un nostro impegno diretto». Al momento non è chiaro che cosa intenda con «impegno diretto», ma sembra di capire che Diem25 si proponga più di influenzare le istituzioni che di diventarne una; per fare qualche esempio, simpatizza con Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, mentre in Spagna conta tra i suoi iscritti Ada Colau, sindaco di Barcellona – il che instaura una connessione con la linea che da Podemos, braccio politico erede degli Indignados, risale fino agli Occupy (pronipoti di quei No Global che in un’altra era dicevano che la globalizzazione è il male), cioè ai movimenti che negli ultimi anni, dagli Stati Uniti fino a Istanbul, più hanno cercato di fare resistenza attiva allo statu quo, di rompere il circolo della dominazione e costituirsi come articolata comunità in lotta. Movimenti che non hanno ottenuto grandi risultati, va detto; ed è questo il secondo rischio – oltre a quello di volere infine prendere il potere, di cedere alla supremazia dei mezzi sul fine, quindi di trasformarsi da sinistra eretica in sinistra burocratica come i suoi predecessori – che vedo per Diem25: il rischio di rimanere rivolta serpeggiante che non riesce davvero a operare la trasformazione del reale e poi si spegne. Lo strumento della decisione collettiva adottato da Diem25, comunque, muove risolutamente verso la democrazia diretta, ovvero la forma politica che più si avvicina alla rigenerazione del flusso sociale del fare, in cui nessuno si vede espropriato del suo potere; dice ancora Varoufakis: 
«Ad esempio, sul referendum costituzionale italiano per prendere una posizione abbiamo ascoltato con attenzione i pareri dei nostri iscritti italiani, che conoscevano meglio la questione, ma poi abbiamo votato ugualmente tutti, dalla Spagna alla Croazia». 
Già, il referendum: il momento in cui quella parte di cittadinanza italiana che non si riconosce in alcuna delle proposte politiche esistenti – e le cui energie Varoufakis si propone di catalizzare – ha reclamato la propria voce. Il referendum in Italia è attualmente l’unico strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione, ed è uno strumento che consente solo di dire No, di opporre un rifiuto, anche se è un rifiuto che afferma, che apre a un’alternativa; tornano in mente le parole di Camus citate all’inizio: «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì». In Italia sono stati molti, in anni recenti, i movimenti che hanno detto No: a partire dal No Tav, da Nord a Sud si sono moltiplicati i No Tap, No Tem, No Triv, No Muos, No Dal Molin, No Canal ecc.; movimenti radicati nel territorio e animati da persone che hanno scelto di non subire decisioni ritenute ingiuste, di opporre il proprio rifiuto e coordinarsi nella lotta, situandosi in un certo senso a un punto intermedio tra rivolta e rivoluzione. Il destino dei No è stato segnato il 1° maggio 2015, quando dopo mesi di parlamentare sulla manifestazione No Expo di Milano – No Expo significava antipotere rispetto al capitalismo internazionale, incarnato dall’allora commissario Beppe Sala – il movimento si è schiantato sulle macchine bruciate e i muri imbrattati del centro città, di fatto smettendo da quel momento di esistere. Proprio in quell’occasione, tuttavia, con una manifestazione alternativa imperniata sull’allestimento di una cucina popolare con prodotti che arrivavano direttamente dal campo in una piazza milanese animata per ore da chiacchiere e balli, si è messo definitivamente in luce un movimento di tutt’altro genere: Genuino Clandestino, la rete nazionale di contadini in lotta, a sua volta in relazione coi consimili di altre parti del mondo, come i Sem Terra del Brasile. Senza strutturarsi gerarchicamente e senza disdegnare l’illegalità (per esempio con scambi di semi antichi, vietati dalle normative vigenti), Genuino Clandestino proclama a gran voce le sue parole chiave: comunità, lotta e autodeterminazione alimentare. Sembra il contravveleno perfetto alla dominazione e all’alienazione generate dal capitalismo finanziario globalizzato; una ricetta che, credo, sia Camus sia Holloway troverebbero di proprio gusto; un seme di rivoluzione che, opportunamente coltivato, potrebbe attecchire in altri terreni e diffondersi. Non siamo né nell’ottobre del 1917 né nel marzo del 1933; ma le lezioni di quegli anni devono essere sempre presenti alla nostra coscienza. Tra il «solitario» e il «solidale» di Camus ciascuno di noi oggi può scegliere in quale punto collocarsi: e questa è l’essenza della libertà.

(17 febbraio 2017)

sabato 23 agosto 2014

Il significato della democrazia di Biagio De Giovanni

DE GIOVANNI: Sono Biagio De Giovanni, attualmente Presidente della Commissione Istituzionale del Parlamento Europeo. Ho insegnato per molti anni in varie università discipline come Filosofia del Diritto o Filosofia politica. Anche questo mio retroterra personale mi induce a credere che oggi potremo condurre una discussione interessante sul significato del termine democrazia. Ora visioniamo la scheda che è stata preparata dalla regia.
Benché si continui ad usare la stessa parola greca, il significato moderno di democrazia è molto diverso da quello antico. Per i Greci la democrazia coincideva con la partecipazione diretta del popolo alle decisioni che riguardavano la polis. Nelle moderne democrazie, al contrario, la sovranità popolare si esercita attraverso le elezioni, con le quali il popolo si sceglie i suoi rappresentanti. Non dobbiamo dimenticare però che la vita politica si svolge oggi in grandi stati, mentre nella Grecia del VI e del V secolo avanti Cristo non esisteva uno Stato, ma una serie di città-stato. Del resto da dove viene la parola politica? Anche politica è una parola greca. Politica viene da polis, che significa appunto città. Se nella democrazia ateniese la politica attiva rimaneva nelle mani degli abitanti della città, nella democrazia moderna questo passa ai politici. Nell'antica Atene, insomma, tutti i cittadini, proprio perché cittadini, erano dei politici. Nelle democrazie moderne, invece, solo quelli che siedono in Parlamento, in genere vengono considerati dei politici. Essere dei politici, però, significa, nella nostra democrazia, esercitare l'attività politica non per se stessi, ma in nome di un solo sovrano: il popolo. Nelle democrazie occidentali la società civile è sempre più direttamente impegnata in politica. Una moderna polis, costituita da associazioni, gruppi di pressione, gruppi economici, preme direttamente sulla decisione politica. Se i cittadini diventano soggetti politici attivi, ne guadagna certamente la vitalità di una democrazia.
Ma può determinarsi così un regresso in termini di governabilità? La democrazia non potrebbe trovarsi ad essere contraddittoriamente minacciata da quelle stesse istanze che ne realizzano, per altro verso, la natura?


STUDENTE: Tenendo presente la differenza che Norberto Bobbio ha stabilito tra democrazia formale e democrazia sostanziale, fino a che punto pensa che la democrazia si sia realizzata nella società attuale? Non pensa che possa esistere una una frattura tra l'ordinamento giuridico statale e la fruizione reale dei diritti di cittadinanza propri di una democrazia reale?
DE GIOVANNI: Io vorrei partire da una considerazione: noi non dovremmo mai commettere l'errore di immaginare che, nella storia, si possa realizzare una attuazione perfetta di un qualsiasi modello di ordinamento. Se non partissimo da questo dato, ossia dalle imperfezioni della storia umana, costituite dai limiti propri dell'uomo, (questa che dovremmo considerare una sorta di finitezza, giammai un’antropologia pessimistica), noi finiremmo per applicare una logica sbagliata, arrivando a credere nell'esistenza di un modello che debba essere realizzato perfettamente. La storia del concetto di democrazia ci dimostra esattamente il contrario, ovvero come i processi storici siano sempre stati processi aperti, tendenze, quasi mai realizzazioni compiute. La società perfetta si realizzerebbe solo se noi fossimo degli angeli. Ma degli angeli, com'è ben noto, non siamo! Anzi, diceva Machiavelli: proprio perché gli uomini sono tristi e non sono buoni, è necessaria la forza, è necessario il potere. Occorre partire dall’idea di un modello imperfetto, da una visione della democrazia come un ideale perennemente incompiuto. La forza della democrazia, rispetto ai modelli dispotici e dittatoriali, riposa esattamente in questa sua perenne incompiutezza. Lei pone, comunque, un problema reale e angoscioso: come si rapportano le forme della democrazia ai diritti effettivi? Questo è un grande problema: il rapporto tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Vorrei fare un accenno a questo tema - ma è un tema che, credo, occuperà parecchio della nostra trasmissione. Noi occidentali, per esempio, abbiamo raggiunto un grande risultato: l'affermazione della Carta dei diritti dell'uomo. Però i diritti dell'uomo sono continuamente violati. Lo sperimentiamo ogni giorno nelle nostre città così come nelle grandi vicende storiche contemporanee. Questo però non significa che avere affermato la Carta dei Diritti dell'uomo sia stata una cosa inutile, perché, comunque, siamo stati in grado di affermare un criterio, sulla base del quale poter criticare la realtà esistente. Se non avessimo avuto un'affermazione così importante, come la Carta dei diritti dell'uomo, di cui quest'anno ricorre il cinquantenario, noi non avremmo avuto a disposizione un criterio attraverso il quale criticare quella realtà insufficiente, imperfetta da cui, troppo spesso, siamo circondati. Questo vale sempre per la democrazia, perché nella lotta per l'affermazione della democrazia esisterà sempre un divario fra forma e sostanza. La tendenza della democrazia deve essere quella di adeguare la sostanza alla forma, i diritti effettivi alle forme e alle procedure per la loro messa in pratica. Questo è un accenno di risposta, ma la domanda implicherebbe la presa in considerazione di tante altre premesse ineludibili.
STUDENTESSA: Noi sappiamo bene come l'ateniese Pericle, nel 400 a.C., abbia usato il concetto di democrazia per giustificare la guerra degli Ateniesi contro gli Spartani (ovvero per giustificare la guerra di una società "libera" contro una tirannica). Attualmente in Italia (che, comunque, è un paese democratico) sembra che esista anche un tipo di interpretazione opposta a quella, apologetica, di Pericle. Non a caso sono sorte delle voci "fuori coro" rispetto all'opportunità e alla correttezza dell'intervento della N.A.T.O. nel Kossovo. Ma allora vorrei chiederLe: quanto è sopravvissuto del concetto antico di democrazia in quello attuale?
DE GIOVANNI: Innanzitutto il concetto antico di democrazia, come per altro ci faceva notare anche la scheda introduttiva, è profondamente diverso da quello contemporaneo - come, del resto, da quello moderno - ma non perché esso fosse più avanzato. Tanto per cominciare, la democrazia antica era, secondo il pensiero politico "classico" solo una delle possibili forme di governo, che potevano essere descritte nel panorama politico di tutto ciò che esisteva. Ma spesso erano descrizioni che non prescindevano affatto da giudizi di valore personali e soggettivi. Si tendeva a considerare, spesso, che le forme di governo potessero essere riassunte in un numero abbastanza piccolo di categorie: "governo dei molti", "governo dei pochi", "governo dell'uno". La democrazia, ovvero il "governo dei molti", era vista, badate tutti, con molta diffidenza dai pensatori politici dell'antichità. Nell'VIII Libro de La Repubblica è possibile rintracciare una celebre critica di Platone, molto forte, al valore della democrazia. In realtà la democrazia godeva di svariate proprietà che ne facevano un modus vivendi estremamente pubblico, anche il suo teatro e il suo laboratorio era costituito, naturalmente, da piccole città. Ma il momento della decisione era quasi sempre estremamente unanime e il potere esercitato era estremamente unitario. La democrazia moderna implica un enorme pluralismo di voci, una grande difficoltà di arrivare a decisioni unanimi, proprio perché la decisione deve poter tenere conto di una enorme pluralità di opinioni diverse. Lei ha portato un esempio riconducibile alla storia attuale. Ma è naturale che su di un'entrata in guerra vi possano essere opinioni diverse! L'importante è tener conto del fatto che, anche in una democrazia, dalla pluralità delle voci, si deve, pur sempre, arrivare ad una decisione. Perché uno dei limiti fondamentali, se non addirittura il rischio principale, della democrazia può essere proprio l'incapacità di decidere. Questo rischia di essere un elemento critico. Noi abbiamo sempre la possibilità, naturalmente, rispetto a decisioni prese, di far valere la nostra critica all'interno della nostra partecipazione alla politica e quindi di farla valere col voto. Quando criticheremo una condotta politica, o condanneremo una determinata scelta, ciò dovrà portarci a non votare nuovamente coloro che, secondo noi, hanno fatto delle scelte sbagliate o addirittura ingiuste. Badate bene: la democrazia moderna è realmente complessa. La democrazia antica era estremamente più semplice. Non credete che sia esistito un modello di democrazia antica che, noi moderni, abbiamo progressivamente fatto degenerare o che abbiamo tradito. Vorrei aggiungere che i dati critici, rispetto alla democrazia antica, erano, da parte degli intellettuali coevi a quel modello, assai maggiori dei dati di adesione. Ho richiamato Platone per ricordare che, rispetto alla città ideale di cui parlava ne La Repubblica, la democrazia rappresentava una delle possibili degenerazioni, perché nell'insieme l'idea era quella che il potere dovesse avere una forte concentrazione e una forte unità.
STUDENTESSA: Jean Jacques Rousseau ne Il contratto sociale parla di democrazia diretta, una forma di democrazia direttamente riconducibile a quella in vigore nell'antica Grecia, condannando l'assolutismo - che ai suoi tempi era lo status quo - che lasciava tutto il potere in mano al sovrano, negando l'esistenza dei diritti fondamentali degli uomini, e polemizzando con il liberalismo parlamentarista, da lui rappresentato come un sistema che lascia solo alla rappresentanza, e non agli individui, la libertà diretta di esprimere un consenso. Secondo Lei, perché non è rimasto in auge questo modello di democrazia diretta, se i principi tratteggiati in essa da Rousseau erano principi validi?
DE GIOVANNI: Va subito rilevato come la democrazia di Rousseau sia un'idea di democrazia legata ad una dimensione sociale molto piccola, la dimensione della città, certamente non ad una grande dimensione, come quella della realtà statale delle grandi nazioni. È chiaro che, in una grande dimensione statale, l'idea che ci possa essere una democrazia semplicemente diretta, con una naturale e diretta partecipazione di tutti al potere esecutivo, renderebbe impossibile il funzionamento di un qualsiasi sistema politico adottato in quello stato. Naturalmente, l'importanza della posizione di Rousseau, che è stato uno dei fondatori del moderno concetto di democrazia, consistette nell'affermare: badate, la dimensione della partecipazione politica deve essere interiorizzata nell'uomo, per poter fare di esso un cittadino. Ricordiamoci del fatto che Rousseau si rivolgeva ad un pubblico coevo ad una situazione nella quale vigevano gli Stati Assoluti, vere e proprie entità nelle quali sussisteva un'altissima concentrazione di potere proveniente direttamente dall'alto. Quasi tutti i teorici dell'etica e della politica anteriori a Rousseau - tranne Spinoza -, non avevano neppure concepito, o rielaborato, il concetto stesso di democrazia. Lo stesso Hegel, dopo Rousseau, aveva espresso molte diffidenze verso la democrazia. Volendo usare un massimo di semplificazione, come è necessario fare in questo caso, era come se allora, siamo nella seconda metà del settecento, l'idea stessa di potere, fosse, per antonomasia, quella di un qualche cosa di discendente dall'alto. Rousseau per la prima volta, sostanzialmente, tende a costruire un potere che nasce dal basso, che pone il problema di un contratto, al quale tutti partecipino, diano la loro adesione, costruiscano quindi una democrazia diretta. Subito dopo Rousseau è stata inaugurata una forte critica di questa democrazia diretta, basata sull'intuizione che gli Stati, i grandi contenitori della democrazia moderna, non possono funzionare se non attraverso una qualsiasi forma di rappresentanza. Inoltre, devo metterVi in guardia su di una cosa: sostenere ad ogni costo un ideale di democrazia diretta, certe volte, può essere un comodissimo alibi per arrivare ad affermare una posizione effettivamente autocratica e dittatoriale. La posizione plebiscitaria, ad esempio, nella quale sembra che il popolo sia presente come detentore del potere assoluto, spesso tutto rischia di ridursi ad un popolo che applaude in una grande piazza! Tutto lì! È democratica quella situazione? O non è democratica? Non è democratica, perché in realtà in un contesto di quel tipo, mancano le istituzioni necessarie alla mediazione fra il popolo e la sua sovranità e le istituzioni politiche stesse. Vorrei aggiungere un'altra cosa, allo scopo di completare l'illustrazione di un concetto non precisissimo, che è già stato tratteggiato nella scheda: la democrazia non può essere solamente politica. L'uomo non può essere solamente un cittadino, perché l'uomo in quanto cittadino, è colui che vota, è quello che esercita i propri diritti politici di cittadinanza. Ma oltre ad essere un cittadino, qualsiasi uomo è anche un lavoratore dipendente, o è imprenditore, o è un assistito, assieme a tante altre cose. Quando, allora, la democrazia come tale tende ad essere la più perfetta possibile e realizzata pienamente? Quando essa può avvicinarsi il più possibile a quella connessione fra democrazia formale e democrazia sostanziale, di cui Lei parlava? La mia risposta, che è un'ipotesi, non potrà essere che questa: quando viene a costituirsi un insieme di connessioni, un insieme di rapporti, che non si esauriscono nei diritti politici, ma che metta in campo, per esempio, l'importanza dei diritti sociali e dei diritti economici. Non può esistere solo il Parlamento come elemento garante della democrazia reale, e quindi come mediatore principale di quella rappresentanza puramente politica di cui Lei parlava. Esistono molti altri momenti della vita pubblica nei quali la partecipazione, magari non direttamente politica, alle associazioni, alla vita del volontariato, alle istituzioni locali, alle istituzioni universitarie, alle istituzioni scolastiche, possono costituire, ognuno attraverso il proprio contributo, momenti di organizzazione di una società più ricca e complessa. Ecco perché è sempre debole il paragone fra la democrazia degli antichi e la democrazia dei moderni. Giunti a questo punto varrebbe la pena considerare la riflessione svolta da Norberto Bobbio sul rapporto tra liberalismo e democrazia, perché mi sembra opportuno approfondire, all'interno del nostro dibattito, proprio questo passaggio della sua meditazione.
BOBBIO: Se si intende la democrazia una società al massimo egualitaria, esisterà sempre un contrasto tra liberalismo e democrazia. Però se noi partissimo dalla definizione procedurale di democrazia ci renderemmo conto di come la democrazia, quella che noi, oggi, intendiamo per democrazia, non sia altro che la naturale evoluzione storica del liberalismo, una sua prosecuzione, perché il liberalismo ha affermato, per primo, alcuni diritti fondamentali dell'uomo, i diritti di libertà e i cosiddetti diritti civili tra cui: la libertà di associazione, di riunione, di stampa, di opinione, di religione, eccetera. Con la democrazia si è affermato un altro concetto fondamentale, quello di diritto politico, vale a dire il concetto di un diritto di prendere parte alle decisioni collettive. All'inizio esistevano solo i cosiddetti Stati liberali che, il più delle volte, non erano affatto democratici, perché potevano prendere parte alle decisioni collettive soltanto alcuni cittadini, generalmente coloro che pagavano una certa quota di tasse, quindi gli abbienti. Cerano delle imitazioni di voto molto gravi per cui potevano votare soltanto una piccola parte dei cittadini: il 2%, il 3% (al massimo) dei cittadini. Poi, con il passare del tempo, è avvenuta l'estensione del suffragio elettorale, fino a che esso non è divenuto universale. Questa estensione non è stata altro che una conseguenza della estensione a tutti i componenti di una società di alcuni diritti fondamentali che erano stati richiesti dal liberalismo. Da questo punto di vista, se noi intendiamo la democrazia soprattutto dal punto di vista procedurale o formale, come lo intendo io, la democrazia attuale è la naturale prosecuzione storica del liberalismo. Non può esserci contrasto tra i due concetti.
DE GIOVANNI: Norberto Bobbio, come Voi sapete, è uno dei grandi maestri del pensiero politico italiano. Egli, secondo me, sostiene una cosa inconfutabile, che ci permette di allargare il nostro discorso: quando, nella democrazia, è stato sottolineato l'elemento puramente egualitario - ossia l'equazione democrazia = eguaglianza - è sembrato che tra democrazia e liberalismo vi dovesse essere opposizione basata sullo stato di fatto della loro diversità. E v'è stata opposizione, da parte dei sostenitori degli ideali democratici, al modello puramente liberale. Voi dovete pensare che gli Stati liberali dell'Ottocento erano Stati che avevano affermato alcuni diritti fondamentali, ma solamente per alcuni. Per esempio il suffragio era ridottissimo. Pensate che fino al 1882 in Italia votava il 2%, della popolazione attiva. La cosa è assolutamente incredibile, per noi, oggi. È accaduto che, ad un certo punto, proprio verso la fine dell'Ottocento, si sia rotto lo schema dello stato liberale puro, basato su di una spaventosa ristrettezza della partecipazione dei cittadini alla vita politica. I grandi movimenti popolari, i grandi movimenti socialisti, i grandi movimenti popolari cattolici, in Italia, così come da per tutto, la fondazione dei partiti socialisti verso la fine dell'Ottocento, avvenuta in Italia nel 1892, fecero sì che le grandi masse entrassero a far parte della vita politica e sociale dei loro paesi. Questa fu una grande novità. Gli Stati si dovettero adeguare al fatto che grandi masse cominciavano a partecipare alla vita politica. In quel momento sembrò che tra liberalismo e democrazia si dovesse instaurare, semplicemente, un'opposizione. In realtà che cosa è accaduto lungo il secolo? Io vorrei che Voi rifletteste sull'attualità. Lungo il secolo è avvenuto che è stata avviata una vera e propria compenetrazione fra il liberalismo puro, (il tentativo di dire: l'uomo ha dei diritti che sono connaturati alla sua umanità, che sono connaturati al suo essere uomo, che non sono diritti di classe, o diritti acquisiti successivamente) e le principali istanze dei movimenti democratici. Il risultato di questa compenetrazione fu arrivare a concludere che i diritti fondamentali della tradizione liberale dovevano essere generalizzati, poiché enormi masse umane che, allora stavano entrando nella storia, ne richiedevano una maggior condivisione. Ecco, in questo, secondo me, consiste l'affermazione del nesso tra liberalismo e democrazia,.
(...)
STUDENTE: Forse non ci sarà mai una perfetta eguaglianza! Ma io vorrei far notare questa incongruenza nel Suo punto di vista: se una persona dispone di tutti i mezzi per arricchirsi, allora possiamo dire "Okay ci sono gli stessi diritti", ma al tempo stesso constatare "ma non ci sono le pari opportunità". Non Le sembra assurdo? Bisogna pur disporre di pari opportunità per poter vivere nella stessa maniera, ossia per poter vivere secondo dei canoni comuni fondamentali da cui poter partire per l'affermazione di sé stessi. Se venisse offerta la possibilità a tutti i cittadini di uno stato di potersi evolvere economicamente nella propria società, insomma, anche con un sistema alternativo a quello capitalistico, questo non significa che comunque tutti finirebbero per fare le stesse cose, o per sfruttare nello stesso modo le stesse opportunità di partenza. Questa è democrazia, almeno da come la vedo io, non terrore politico!
DE GIOVANNI: Sì, d'accordo. Ma allora, a questo punto, Le vorrei fare io una domanda. Non Le sembra che le democrazie moderne abbiano tentato - e che stiano tuttora tentando, poiché i processi storici sono sempre in corso, naturalmente - il massimo possibile per costruire un rapporto tra diritti sociali e diritti politici che fosse il più equo possibile? Provi a tornare con la Sua mente indietro nel tempo, al Medioevo, al Rinascimento, al Seicento o al Settecento, quando i poteri costituiti erano veramente oligarchici. La democrazia, affermandosi, ha rotto queste oligarchie. Ha creato lo stato sociale in Occidente. Si può obiettare: ma lo stato sociale non può soddisfare tutti, perché lo stato sociale mantiene all'interno della società dove esso è in vigore una convivenza tra povertà e ricchezza. Certo! E chi lo nega! Dicevo all'inizio: non pensate a modelli assoluti come progetti per il futuro. Io sono dell'avviso - faccio una considerazione brevissima, perché qui bisogna essere molto brevi -, che la Sua critica riprenda il tema di Marx, ovvero la critica della democrazia politica (quella che Marx chiamava "il cielo della politica di fronte alla terra"), e la necessità di considerare il materialismo della società civile. Questa è una critica realistica, e una saggia tendenza dovrebbe essere quella di poter mettere insieme questi due livelli della realtà. Ma è un processo di fronte al quale dovremmo chiederci: che cosa conta, al suo interno, a livello decisionale? Contano due cose, secondo me:
La prima è: la grande capacità dell'individuo di partecipazione alla lotta politica, anche di lotta di classe, quando è stata necessaria.
La seconda, contrariamente a quanto si possa credere, è stata l'esaltazione dell'individuo, e della sua capacità, in quanto individuo, di restare all'interno del processo storico, senza tentare di farne astrazione. 
Rispetto alla democrazia, oggi, non c'è di meglio al mondo. Purtroppo è così!


STUDENTE: Comunque è riscontrabile anche il fatto che i piani teorici non sono mai stati attuati praticamente in assoluto, nella storia umana. Non a caso le grandi delusioni storiche, hanno generato reazioni culturali tutte assimilabili da un unico comune denominatore (si pensi al naturalismo, al verismo, ecc.), il fallimento di una prospettiva realistica, riscontrare che la democrazia, dopo le lotte intraprese per la sua affermazione non era praticamente quello che ci si aspettava che potesse essere sul piano teorico. Ma nessun modello ideale è mai stato realizzato perfettamente nella realtà storica!
DE GIOVANNI: Ma Lei è proprio convinto che noi si debba partire da un modello ideale per poi misurare quanto di questo modello sia stato realizzato nella realtà? Siamo ancora convinti che Platone sia il nostro schema ideale di pensiero? È uno schema per il quale si parte dal grande modello ideale del mondo, poi andiamo si va a vedere, lentamente, che cosa di questo modello si è in grado di realizzare nella realtà. Siamo sicuri che esso sia la ricetta giusta per cambiare le cose? Non si dovrebbe avere un atteggiamento molto più dinamico, molto più processuale, che parta dall'osservazione di come il mondo è realmente? Come vi ho detto sin dall'inizio: la democrazia è, per definizione un processo incompiuto. Come tutti i processi dinamici!
STUDENTE: È una visione pessimistica, questa!
DE GIOVANNI: Pessimistica!? È una visione storicistica, è una visione della storia umana, della finitezza della storia umana. Forse c'è una leggera punta di pessimismo antropologico in questa interpretazione della natura umana. In questo mi sento molto vicino ancora alle cose che diceva Machiavelli ne Il principe, cioè: se fossimo angeli il mondo sarebbe perfetto. Non lo siamo, però, (viva Dio!), il punto fondamentale dal quale possiamo ancora partire per modificare le cose qual è? L'impegno, sia etico, che politico, da parte di tutti. Devo dire, a questo riguardo, che io avverto una notevole indifferenza, oggi, nelle nuove generazioni rispetto al problema dell'impegno. Questo è un problema che va combattuto. No? Devo dire che io oggi non l'ho avvertiti, con Voi studenti, ma purtroppo è una tendenza reale.
STUDENTE: Lei non pensa, allora, che uno degli articoli meno attuati della Costituzione Italiana sia quello in cui lo Stato dovrebbe, diciamo, rimuovere gli ostacoli economico-sociali di ogni cittadino, proprio per favorire la possibilità di quell'uguaglianza di libertà di ognuno di noi?
DE GIOVANNI: Non c'è dubbio. Vorrei che valutaste però questo aspetto delle cose: è un fatto importante che la Costituzione Italiana, contrariamente alla grande maggioranza delle costituzioni europee, affermi un punto fondamentale sui diritti dell'uomo (il fatto che lo affermi, non significa che lo realizzi o che lo abbia realizzato o che sia in grado di realizzarlo in maniera compiuta). Però, anche grazie a questo punto della Costituzione Voi giovani disponete, per esempio, di uno strumento intellettuale e politico di lotta per poter affermare : ma se la Costituzione dice questo, perché spesso nella realtà storica avviene il contrario, soprattutto nel nostro paese? Come mai? 
È questa l'essenza di ogni vera battaglia politica: la tensione che si viene a creare fra ciò che dovrebbe essere la realtà e ciò che è, senza mai potere immaginare che ciò che dovrebbe essere diventerà sicuramente e compiutamente ciò che è, perché questa è un'immagine astratta della storia. Badate, ci sono stati dei tentativi di trovare grandi scorciatoie politiche - le abbiamo avute nel secolo - e queste scorciatoie politiche sono fallite. Vi siete chiesti: perché sono fallite? Sono evidentemente fallite anche a causa di tante complicate ragioni economiche, politiche, storiche, anche perché il tentativo di dare una realizzazione compiuta ad un modello assoluto della realtà, come dicevo prima, può finire col distruggere proprio la democrazia, ossia la possibilità che tutti gli individui possano far valere ognuno la propria individualità. Guardate bene: il liberalismo è proprio questo. Il nesso tra liberalismo e democrazia è proprio questo. Dietro l'idea di democrazia esiste un'idea del valore dell'uomo. La democrazia non è solamente un sistema dove governa la maggioranza, è anche il sistema politico che, più di tutti, tende a valorizzare l'uomo e i diritti umani. Poi, naturalmente, la storia è stata, ed è, quella che è. La vediamo all'azione. La storia è terribile, badate, perché l'uomo è terribile, perché il potere è terribile. Voi, nuove generazioni, dovreste poter riporre la Vostra fiducia, le Vostre capacità, la Vostra speranza, nella capacità di lotta anche. Ripeto, insisto: sento più indifferenza, in generale, verso questi problemi di quanta non ne sarebbe necessaria. Si pensi ad un'opera d'arte emblematica dei processi storici di cui stiamo parlando. È un quadro interessante per farci comprendere il passaggio dal liberalismo classico alla democrazia moderna, dipinto da Giuseppe Pelizza da Volpedo, Il Quarto Stato, un celeberrimo quadro, rappresentativo di questa transizione dalla cultura politica liberale classica alla moderna democrazia di massa. Quello fu il momento storico in cui - alla fine del secolo scorso - grandi masse umane entrarono a far parte della società politica. Prima, queste masse, erano tagliate completamente fuori da ogni cittadinanza politica effettiva. La politica si giocava in un circolo ristrettissimo. Questo quadro è l'emblema di questo passaggio.

STUDENTE: Quanto è collegata, secondo Lei, l'informazione alla democrazia? Quanto possiamo, noi cittadini, giudicare correttamente l'operato degli uomini politici che noi votiamo? Quanto possiamo credere nell'informazione politica? Molto spesso l'informazione politica, in questo paese, risulta essere non oggettiva, di conseguenza non possiamo giudicare in modo imparziale e, quindi, regolarci di conseguenza!
DE GIOVANNI: Questo è naturalmente vero. Io vorrei, però, rispondere, innanzi tutto, alla prima parte della Sua domanda. Sicuramente il nesso tra informazione e democrazia è strettissimo, nel senso che la democrazia è, o dovrebbe essere, il regime della pubblicità. L'agorà greco, sia pure per una piccola città, voleva rappresentare proprio questo: il fatto che le decisioni rilevanti venissero prese in pubblico. Tra pubblicità e democrazia c'è sempre stato un rapporto strettissimo, sin dalle prime affermazioni della democrazia politica, in opposizione ai vecchi luoghi comuni degli arcana imperi, la mentalità anticamente diffusa secondo cui il potere è segreto. Esso non deve informare, deve poter vedere tutto, ma non deve essere visto - sto pensando al famoso panoptikon di Bentham, ossia una sorta di punto di vista dal quale si può vedere tutti, senza essere visti. Sicuramente l'informazione deve essere trasversale, ma - attenzione - il mondo contemporaneo, se possiede una caratteristica peculiare essa è proprio quella della velocità con cui le notizie vengono date. Voi lo sapete meglio di me, perché su queste cose siete molto più aggiornati di me. Oggi il potere di pubblicizzare l'informazione - mi riferisco ad Internet, ma potrei riferirmi alla stampa, alla televisione -, è straordinario. Naturalmente c'è sempre chi tende a manipolare l'informazione, per manipolare le coscienze, a ridurre l'oggettività dell'informazione allo stretto indispensabile per ricavarne degli scopi poco puliti. Ma perché dovremmo immaginare che tutto debba sempre essere chiaro e limpido? Questi di cui stiamo parlando sono problemi enormi, rispetto ai quali il fattore decisivo non può che essere la capacità di lotta esistente in seno ad una società. Gli strumenti d'informazione li avete a disposizione. Internet, per esempio, è uno strumento di informazione essenziale, perché tramite esso è possibile pubblicizzare tutto e pubblicizzare è indispensabile per informare. Ma ricordiamoci anche del fatto che pubblicizzare è mettere chi agisce, politicamente o no, di fronte alle proprie responsabilità.
STUDENTE: Da quello che Lei ha appena detto è possibile evincere che l'uomo è tanto più libero quanto più gode di una informazione obbiettiva e non manipolata?
DE GIOVANNI: La libertà, in ultima istanza, non dipende da niente. La libertà, fondamentalmente, consiste in ciò che è Lei come individuo. Bisognerebbe sempre partire da questo presupposto. Noi tutti dovremmo sempre partire da questa premessa: noi siamo liberi. Dopodiché si può essere condizionati da cento fattori di cui moltissimi negativi. Naturalmente più siamo bisognosi, per esempio, meno siamo liberi. Più abbiamo scarsa capacità di partecipare alla vita economica e sociale, meno siamo liberi. Però, l'essenza della libertà sta nella nostra umanità. Naturalmente a partire da questo, tutto quello che Voi dite, tutto ciò che avete rilevato, per esempio, sull'informazione, è vero. Vorrei portare un'esemplificazione. Noi stiamo parlando di questo mondo contemporaneo, dove l'informazione passa attraverso tutte le dimensioni, anche sotto forma di informazione manipolata. Questo significa che è necessario avere la capacità di critica. Pensate al mondo antico, pensate al mondo medioevale o anche al grande Rinascimento. Potete Voi immaginare, in quei tempi, un livello di informazione, cioè di pubblicità del potere, migliore di quello di cui godiamo oggi? Certamente non era così. Quindi il mondo, anche da questo punto di vista, va verso il meglio, (come avrebbe detto Kant), non va verso il peggio. Ma nonostante tutto rimane e rimarrà sempre un mondo da migliorare. Lei nota in questo una una nota di pessimismo? Forse sì, una nota di pessimismo è presente, in quanto viene messo l'accento su questo senso della finitezza umana, su questa dimensione non angelica dell'uomo, su questa ripetitività del potere, che è una dimensione, se volgiamo, aspra della storia, che sconfina in una inimicizia perenne che spesso pone gli uomini gli uni contro gli altri. Se volessimo immaginare un mondo totalmente privo di imperfezioni anche da questo punto di vista, probabilmente, avremmo di questo mondo una visione machiavellicamente angelica! E, comunque, totalmente irreale.
STUDENTE: Vi sono anche delle guerre, in corso, su questo mondo.
DE GIOVANNI: Vi sono delle guerre, ci sono delle guerre dichiarate, ci sono delle guerre non dichiarate. Sembrava che dopo il 1989-90, dopo la caduta del Muro di Berlino, il mondo dovesse conoscere il trionfo della democrazia e basta. La cosiddetta "fine della storia". Invece, come avete visto, la rottura degli equilibri mondiali sta ricreando nuove forme di egemonie.
STUDENTE: Come si fa ad essere ottimisti in un mondo che continua a produrre, spesso, dei conflitti per soli scopi autoritari?
DE GIOVANNI: In questo mondo di cui Lei sta parlando Lei dovrebbe avere il coraggio e l'impegno di portare la Sua energia umana, la Sua energia etica, la Sua energia politica, la Sua energia civile. Un poeta una volta disse: l'atto quotidiano di una persona giusta è quello che salva il mondo dal male. Non c'è nessuna retorica in questo. Più energia individuale noi investiamo nel mondo, più volontà di pace, volontà di partecipazione, condizionamento democratico del potere, partecipazione alla politica, partecipazione alla vita civile, partecipazione alla vita scolastica, studio, ricerca, otterremo come risultati. Il mondo è fatto di questo bisogno di impegno. Il risultato complessivo della storia sarà anche il risultato complessivo di quello che noi vi investiremo dentro. Più nutrirete indifferenza verso il mondo, restandoVene in lontananza, e più il potere si occuperà di Voi e Voi, alla fine, non riuscirete più a condizionarlo. Quindi, come dire, c'è costante necessità di una riflessione sulla politica e sull'etica da realizzare in questa realtà. Con una politica "pura" che non si sporca le mani con il quotidiano non usciremo mai da tutti questi problemi.
STUDENTESSA: Lei, poco fa, ha portato l'esempio del Medioevo, in cui non era possibile godere di una effettiva conoscenza del potere. Lei, però, non pensa che, anche senza risalire così indietro nel tempo, sino al Medioevo, e restando in questo secolo, in periodi storici come il fascismo, l'informazione politica, pur essendo presente, (allora stavano nascendo i grandi mezzi di comunicazione di massa) può essere stata usata in maniera completamente distorta? Posto esclusivamente in mano allo Stato il potere di informare la gente, in quel periodo, aveva deformato in maniera abbastanza consistente la visione del potere da parte dei cittadini, inquadrando la storia degli eventi politici di quegli anni solo da un certo punto di vista, nonostante il progresso tecnologico di cui già allora si disponeva in termini di pubblicizzazione della politica. Ma allora questo "andare verso il meglio" di cui Lei parlava prima…?
DE GIOVANNI: Lei ha posto un problema molto importante, di cui possiamo parlare, sia pure brevemente. Io vorrei che, quando Voi pensate ai limiti della democrazia - oggi gran parte delle Vostre domande sono state sui limiti, la crisi e la critica della democrazia - non dimentichiate mai che l'unica alternativa moderna alla democrazia è la dittatura. Oggi, anche la politologia ha semplificato il vecchio schema. Prima si parlava: autocrazia, monarchia . No. Solo dittatura o democrazia. Tu hai fatto l'esempio del fascismo. Il fascismo è stato un fatto, come dire, del mondo moderno. Ci sono molti storici che stanno valutando tanti aspetti, però il punto fondamentale è questo: una cosa è un'informazione governata esclusivamente dall'alto, altro è un'informazione contraddittoria, manipolatrice, ma che sta dentro un processo e una dialettica, democratica. L'alternativa a questi regimi è la dittatura. Sembra troppo secca la cosa, ma è proprio così. Non c'è via di mezzo. Bisogna stare in questa democrazia e cercare di migliorarla. Non dire: "Ma questo va male. Quest'altro va male." Allora?".. Il processo è questo, dove andiamo altrimenti?
STUDENTESSA: Quindi dovremmo saper distinguere tra dove è possibile il confronto e il dibattito e la pura propaganda
DE GIOVANNI: Certo saper distinguere dove nasce il potere, perché il carattere delle dittature è che il potere nasce tutto dall'alto, che tutto è concentrato in quel punto che vede, senza essere visto, ilpanoptikon .
STUDENTE: Professore, mi scusi, riguardo all'informazione: come è possibile contestare il finanziamento ai partiti, in una democrazia, quando poi è possibile che non tutti i partiti abbiano la possibilità di ottenere una pubblicità come d'altronde è successo in Italia anni addietro?
DE GIOVANNI: Non ho ben capito se la Tua domanda è favorevole o contraria al finanziamento ai partiti.
STUDENTE: No, è favorevole.
DE GIOVANNI: Anche io sono favorevole per una ragione chiara, che la politica ha un costo - ed è giusto che lo abbia. Naturalmente poi la democrazia deve vigilare che il costo della politica sia veramente un costo che va alla politica, intesa come vita civile, poliscittà. Ma immaginare, come dire, qualunquisticamente che siccome c'è la corruzione vanno aboliti i partiti è un altro discorso. La politica ha i suoi costi e naturalmente è molto difficile governare un problema di questo genere, non solo per un atteggiamento che oggi esiste di risentimento contro le forme della mediazione politica. Questo è un punto pericoloso, badate. Noi possiamo criticare i partiti quanto vogliamo, criticarne la degenerazione, ma dobbiamo sapere che non sono state ancora inventate altre forme per trovare la mediazione della democrazia. I partiti devono diventare sempre più progetto e sempre meno potere. Le idee devono passare da qualche parte, attraverso gli strumenti di mediazione fra società e istituzione. Il dettaglio sul finanziamento sarebbe lungo e ci porterebbe lontano. Ma il tema mi pare importante.
STUDENTESSA: Professore, Lei ha fatto riferimento prima all'VIII Libro de La Repubblica di Platone. Abbiamo richiamato, attraverso Internet, un sito contenente i dialoghi di Platone proprio perché vogliamo prendere in considerazione la critica che il filosofo fa della democrazia come degenerazione dello Stato, come regime sciolto dal peso d'ogni disciplina. Dobbiamo considerare che Platone era convinto della sostanziale ineguaglianza degli uomini. Però, viste tutte le critiche che abbiamo mosso oggi alla democrazia, dovremmo anche prendere in considerazione l'idea di Platone di far gestire la cosa pubblica ai migliori, i migliori per virtù e valore intellettuale, oppure, per non essere così drastici, prendere l'idea di Rousseau, che la volontà della maggioranza non sempre tiene conto del benessere comune e dell'utilità pubblica.
DE GIOVANNI: Devo dir la verità, io penso che sia meglio che non tutti i migliori arrivino a governare, ma piuttosto immaginare che il governo debba essere dei migliori. Perché poi ognuno si interpreta come il migliore, allora il vero rischio è che si passi a una situazione monocratica. Badate che la critica di Platone nell'VIII Libro de La Repubblica - che addirittura vede la democrazia come il penultimo stadio della degenerazione, poi, c'è solamente, la tirannide, è un elemento che, diciamo, spinge non in direzione di adesione - ma diciamo, di valorizzazione di ciò che la democrazia ci può offrire. Ecco, io credo che la democrazia moderna è l'unica forma di governo nella quale noi possiamo pensare di migliorare la nostra esistenza individuale.
di Biagio De Giovanni da Il grillo 11/10/1999 (Incontro al Liceo Classico "G.B. Vico" di Napoli)

mercoledì 5 febbraio 2014

Julia Kristeva "Dobbiamo costruire una religione laica"

PARIGI - Mentre varco il portone della casa parigina di Julia Kristeva, il pensiero subito va alla femminista ultrabattagliera, alla giovane redattrice della rivista d'avanguardia Tel Quel, alla inquieta psicanalista e studiosa di semiotica amica di Foucault, Barthes, Derrida... E poi mi trovo di fronte una bella signora settantenne che, senza rinnegare affatto quei trascorsi, sta percorrendo itinerari che si sono arricchiti di nuove sfumature.
"La nostra eredità culturale è doppia. Da un lato il cristianesimo, dall'altro l'illuminismo, rottura irreversibile della civilizzazione europea. Tanto più qui in Francia: patria della rivoluzione francese e dei diritti dell'uomo. Nel momento in cui la nozione di peccato perde senso per la parte secolarizzata della popolazione, resta la grande preoccupazione sul significato dell'etica laica. Ebene lo dimostra il dilemma dell'attuale governo francese, che si chiede se sia giusto insegnare una morale laica o propendere piuttosto per un insegnamento laico della morale. Perché un sistema di regole preconfezionato che vada bene per tutti ormai è impensabile. Si tratta allora di riconoscere la specificità della vita interiore di ciascuno e conseguentemente trovare la versione singolare, personale, di tali regole".

Dunque, a suo modo di vedere, l'idea di limite può essere salvaguardata solo grazie a un incrocio tra la tradizione religiosa e la modernità laica.
"Assolutamente. Il nuovo umanesimo passa attraverso una rivalutazione permanente di tutti i codici morali dell'umanità, ivi compreso quello della religione che ci precede. Quell'eredità non può essere lasciata in mano al Fronte nazionale o alle varie forme di integralismo. È necessario che nelle scuole si insegni storia della religione, per incamminarsi non verso un sistema di regole assolute, ma verso un'interrogazione ininterrotta della tradizione. Interrogazione che deve valere anche per i lasciti della rivoluzione dei Lumi. Quella stagione ha prodotto una nuova libertà, fino ad allora impensabile: sia del pensiero che del corpo, contro i differenti dogmatismi religiosi e di classe. Ma abbiamo potuto saggiare anche i rischi iscritti in tale libertà. Penso agli esiti di una liberazione borghese sfociata prima nel terrore e poi nel colonialismo; di un terzomondismo che spesso ha aperto le porte al fondamentalismo religioso. E penso anche a un femminismo su grande scala, quanto mai generoso, ma incapace di affrontare tante esigenze singolari, a cominciare dall'esperienza della maternità.
Nietzsche dice che bisogna mettere un grande punto interrogativo su tutte le questioni più serie che abbiamo di fronte. Per venire a noi: cos'è il peccato? Cosa la trasgressione? Cosa la negazione della norma? Cosa la rivolta? Così come bisogna tornare a interrogarsi sull'idea di autorità".

Proprio questo è il punto. Chi oggi ha l'autorità per stabilire il limite oltre il quale non si può andare?
"Io non sono così sicura che il concetto di limite vada scomparendo. Le faccio un esempio concreto che riguarda proprio la figura dell'autorità. Viviamo in una sorta di entusiasmo romantico legato all'enorme sviluppo della scienza medica, in base al quale, ad esempio, la vecchia figura del padre sembra non essere più indispensabile. Bene. Ciò non toglie che un bambino, per crescere, ha comunque bisogno di separarsi passionalmente e sensorialmente dalla madre. E perché questo accada deve intervenire un'autorità che gli ponga dei limiti. Tale ruolo potrà essere giocato, che so io, dal padre genetico, dal nonno materno, da un istitutore... o da uno psicanalista, se quel bambino non apprende l'idea del limite. Per certo però quel passaggio non potrà essere eluso. Perché proprio noi, eredi dell'illuminismo e delle scienze umane, sappiamo bene che una persona, per diventare adulta, ha bisogno di essere "strutturata", dunque di appoggiarsi a una norma. Non per ottemperare ai voleri di una chiesa o di qualunque forma di confessionalismo, ma per una necessità psichica. L'autorità a cui penso sarà fondata su un sapere plurale e su diverse forme di esperienza, quindi capace di adattarsi a ciascun individuo".

Forse per noi laici europei tutto si complica a causa del fondamento religioso della morale. Diverso è il caso di quelle società orientali che hanno autonomi fondamenti laici: penso al confucianesimo.
"Non sono così sicura che il mix dell'eredità greco-giudaico-cristiana combinata all'illuminismo ci renda più impotenti rispetto ad altre situazioni. Al contrario, penso che in questo crogiolo siano iscritte potenzialità di cui non andiamo abbastanza fieri. Se l'Europa è così in crisi e al fondo depressa è perché non ha utilizzato la carta migliore a disposizione: la cultura. Già Duns Scoto, nel XIII secolo, parlava della verità come di qualcosa che non appartiene né a categorie astratte né all'opacità della biologia, ma all'haecceitas, al "questo". In ciascuno c'è un briciolo di eccezione: e qui va cercata la verità. Eccolo il vero messaggio europeo, estraneo sia alla cultura cinese che a quella araba. Vede, sin dal '68, dagli anni del maoismo, sono in costante contatto con la cultura cinese. Una cultura che grazie alla mescolanza di taoismo e confucianesimo ha prodotto una straordinaria adattabilità al cosmo, alla natura, al flusso della vita; una società in cui i migliori lasciti confuciani garantiscono il rispetto della tradizione. Di fronte però all'esplosione della richiesta di diritti individuali, sono loro a trovarsi in difficoltà. E a individuare nella cultura europea il modello da seguire".

Se si incrina l'idea di limite, finisce anche l'idea di trasgressione. A questo punto non perde di senso anche il classico mito del Don Giovanni?
"Tutti sanno che un certo femminismo, soprattutto americano, si è mobilitato contro l'uomo seduttore, a cui tutto è permesso, e che si richiama per l'appunto al mito del Don Giovanni. Per molti versi è stata ed è una battaglia assolutamente giusta, come dimostrano ancora troppi casi in cui uomini di potere impongono il loro desiderio alle donne con brutale aggressività. Ma due sono state le conseguenze: da un lato, una crisi sempre più evidente della virilità, con l'uomo occidentale che oscilla tra impotenza e violenza; dall'altro la negazione della seduzione, elemento imprescindibiledell'erotismo".

In questo scenario, quali sono le nuove "malattie dell'anima", per usare una sua espressione di qualche anno fa?
"Quelle legate all'indebolimento della famiglia, della scuola, in genere dei luoghi di integrazione. Senza contare il ruolo crescente dell'immagine, che rimpiazza il linguaggio e rende l'uomo parlante sempre meno parlante. Mentre il sistema di comunicazione copre ormai l'intero campo visivo sotto un'immensa tela di superficie, a scapito della profondità, del foro interiore. È in questo vuoto crescente, in quella condizione di disadattamento definita in termini psicanalitici "de-liaison", che si inserisce con successo ogni forma di integralismo, attraverso una sorta di capitalizzazione delle pulsioni di morte inviate ai ragazzi "malati di idealità". I quali non riconoscono più non solo la differenza tra bene e male, ma anche quella tra dentro e fuori, il sé e l'altro. A quel punto, anche il limite della morte perde di senso".

Da una parte il tradizionalismo religioso, dall'altra il nichilismo avanzante: non sembra esserci tanto spazio per un nuovo umanesimo.

"Io penso invece che quello spazio ci sia. Nell'epoca della globalizzazione, non si confrontano soltanto diverse lingue e religioni, ma anche diverse morali. A noi il compito di intessere una sorta di mantello d'Arlecchino, una specie di passerella ideale tra i codici morali di ciascuno. L'umanità ormai non ci appare più come un universo, ma come un multiverso, e mi appoggio in questo all'astrofisica e alla teoria della proliferazione degli universi possibili. Ecco perché parlo del mantello d'Arlecchino come di una nuova veste sociale e normativa, a cui deve concorrere la stessa rilettura della tradizione e la sua concezione di limite. A conclusione della sua Critica della ragion pura, Kant intravede la possibilità di un corpus mysticum di esseri razionali, in cui l'Io e il suo libero arbitrio si riuniscono con il totalmente altro da sé. È molto di più che il richiamo all'usurato concetto di solidarietà. È un incitamento a entrare in contatto con l'estraneo, a comprenderlo, salvaguardando la sua singolarità, la sua eccezione. Per riuscirci, occorre creare una nuova classe di pionieri dell'umanesimo, disposti a combattere la battaglia di una inesausta negoziazione tra differenze".
da Repubblica 07 settembre 2013 

lunedì 27 gennaio 2014

Quel che resta di Auschwitz di Giorgio Agamben

Il libro di Giorgio Agamben Quel che resta di Auschwitz è una stimolante riflessione sulla Shoah, su ciò che essa ha significato per l’etica e, più in generale, per la comprensione dell’uomo, un libro che mette in moto i pensieri, con cui si può essere d’accordo oppure no, ma che, comunque, non si può non considerare una riflessione originale e intelligente su questo tragico fatto storico e sulle sue implicazioni politiche, giuridiche e soprattutto morali. Rispetto all'etica Auschwitz ha rappresentato infatti la più radicale messa in discussione dei suoi valori fondamentali, delle sue regole, d’oro e d’argento che siano. Con un’immagine suggestiva, nell'Avvertenza che apre il suo studio, Agamben si augura che alcuni problemi sollevati dall'analisi del fenomeno Auchwitz, possano aiutare ad orientare futuri “cartografi” di una “nuova terra etica” (pp. 9-10). E qualche riga sopra la crisi dell’etica tradizionale viene annunciata con queste parole: “Come si vedrà, quasi nessuno dei princìpi etici che il nostro tempo ha creduto di poter riconoscere come validi ha retto alla prova decisiva, quella di una Ethica more Auschwitz demonstrata”(p. 9).
Auschwitz – osserva ancora lo studioso – rappresenta il luogo di un esperimento ancora impensato: tutti i metalli dell’etica tradizionale raggiungono il loro punto di fusione in quella che Levi ha designato come “zona grigia”, un’incessante alchimia dove l’oppresso diventa l’oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima (p. 19).
“Al di qua del bene e del male” si svolge la vita del campo e non soltanto quella degli aguzzini e oppressori, nonostante la loro pretesa di porsi “al di là del bene e del male”, ma anche degli oppressi, delle vittime, di cui Primo, Levi nei due  libri che raccontano la sua prigionia ad Auschwitz-Monowitz, non esita a registrare la completa perdita di quella dimensione umana e spirituale, su cui le categorie etiche propriamente poggiano e si fondano. La dimensione dell’uomo che sta alla base dell’etica, che ne è, per così dire, la condizione e la rende possibile, è infatti quella di un essere  capace di trascendere la pura naturalità, la pura immediatezza. E’ quella di un soggetto libero. Solo in quanto eccede la dimensione propriamente naturale, fisiologica, l’uomo è soggetto morale. La legge morale è infatti in contrasto con la legge che regna sovrana in natura, con l’elementare legge del più forte. Ma è la legge naturale del dominio, della sopraffazione da una parte e dall'altra della conservazione di sé, la legge della sopravvivenza ad ogni costo, quella che regna nel campo.
In quella gigantesca “esperienza biologica e sociale” che il Lager rappresenta – scrive Levi – “esistono fra gli uomini  due categorie ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse” (Se questo è un uomo, La Biblioteca di Repubblica, Torino 1958-2002, p. 94). Così muore lo spirito e, con esso l’etica, ad Auschwitz. Scrive Agamben “Chi è passato nel campo, tanto se è stato sommerso quanto se è sopravvissuto, ha sopportato tutto ciò che poteva sopportare – anche ciò che non avrebbe voluto o dovuto sopportare” (p. 71).
Ma è in particolare il sommerso ad attrarre l’attenzione dello studioso. Vediamo per quali motivi. Il libro si pone innanzitutto il problema della testimonianza. Chi è il testimone? Chi può testimoniare, fino in fondo, quanto è accaduto nei campi e nei centri di sterminio? La risposta di Agamben è che il vero testimone, il “testimone integrale”, come Levi lo chiama, non è il superstite, colui che, secondo le parole di Levi, “per prevaricazione, abilità o fortuna” non ha toccato il fondo, ma il “sommerso”, chi “ha visto la testa della  Gorgona”. Ovvero, come lo si chiama nel gergo del campo, il musulmano. Le testimonianze che possediamo, essendo testimonianze di superstiti, presentano dunque tutte una “lacuna”, in quanto il testimone vero, il testimone integrale non può deporre, perché o “non è tornato per raccontare” la sua esperienza o è tornato “muto”. La testimonianza del sopravvissuto è dunque “un discorso per conto di terzi”, un parlare in “loro vece”, “per delega”. Ma – osserva Agamben – parlare di delega non ha senso: i sommersi non hanno nulla da dire, non hanno storia, né volto, né pensiero. La Shoah è pertanto “un evento senza testimoni”.
Chi è il musulmano? Secondo la  rappresentazione e definizione che ne hanno dato   testimoni quali Levi, Wiesel, Amery, Carpi, Bettheleim, e storici del calibro di Sofsky, Kogon, i musulmani, erano morti viventi, cadaveri ambulanti. Affamati, degradati, appartenevano a un regno intermedio tra la vita e la morte, tra l’umano e il non umano: non erano – sintetizza Pier Vincenzo Mengaldo – né veramente vivi, né ancora morti, né ancora veramente uomini, né del tutto non uomini.
Le descrizioni del musulmano concordano tutte nell'indicare questo stadio cui, prima o poi, quasi tutti gli internati raggiungevano, come “perdita di coscienza, di consapevolezza”, come il venir meno “della volontà di vivere”, come “ripiegamento” e chiusura su se stessi. Nella “situazione estrema”, nell’“esperienza limite” del campo, il musulmano, secondo Bettelheim, è colui che “non resta un essere umano”, colui che non riesce a rimanere uomo.
C’è, secondo quest’autore, “un punto di non-ritorno”, una sorta di discrimine morale tra umano e non umano, una soglia che il prigioniero non deve mai varcare e oltrepassare, se vuole rimanere uomo. Quando perde ogni senso di dignità, di rispetto di sé, di decenza, quando abdica anche all'ultimo margine di libertà, quando rinuncia alla dimensione della coscienza, allora l’uomo cessa di essere veramente uomo, muore spiritualmente e moralmente e talora anche fisicamente.
La conclusione di Bettelheim ha come presupposto, che l’umano, il propriamente umano sia lo spirituale, l’etico, ma è proprio questo presupposto che Agamben vuole mettere in dubbio, in questione con la sua riflessione su Auschwitz. Il musulmano, secondo l’autore, rende relativa l’opposizione più consolidata del nostro pensiero, quella tra umano e non umano. Per lui, il musulmano non deve essere escluso dall’umano: ha perduto ogni dignità e rispetto di sé, ma rimane un uomo. La “nuova terra etica” è dunque proprio il musulmano, per cui occorre cercare un’etica nuova, che inizi dove finiscono rispetto e dignità, dove si estingue lo spirito, dove finisce, cioè,  l’etica tradizionale. Alla luce dell’esperienza estrema del campo, al cospetto del musulmano, di colui che, pur ridotto alla nuda vita biologica, rimane ancora un uomo, l’etica tradizionale, del resto, con le sue idee di rispetto di sé, dignità, decenza, contegno, buone maniere, educazione, appare solo un’ “inutile commedia”, una “finzione”, che ci fa sorridere, così come, in una famosa scena del Malte, i barboni di Parigi, ammiccando e sogghignando, se la ridono del tentativo del protagonista di darsi un contegno, di apparire, a motivo del colletto pulito o delle mani lavate e curate, diverso da loro.
Ciò che con studio di secoli la riflessione morale aveva cercato di escludere dall'umano, riappare nel ghigno dei barboni e nella figura estrema del musulmano, e, come il poeta, anche noi temiamo di essere riconosciuti dai reietti come uno di loro, temiamo di riconoscerci in loro, di scorgere in loro, ciò che alla fine resta dell’uomo, e quindi il propriamente umano.
Commenta Agamben: “Forse mai prima di Auschwitz, il naufragio della dignità davanti a una figura estrema dell’umano, e l’inutilità del rispetto di sé di fronte all'assoluta degradazione sono state descritte con tanta efficacia. Un filo sottile collega le “bucce d’uomini” temute da Malte agli “uomini guscio” di cui parla Levi. E la piccola vergogna del giovane poeta di fronte ai barboni di Parigi è come una sommessa staffetta che annuncia la grande, inaudita vergogna dei superstiti di fronte ai sommersi” (p. 56). Jean Amèry ha descritto molto bene lo scandalo dell’intellettuale, dell’uomo di spirito, avvezzo alla riflessione morale, posto a confronto con l’assurda esperienza del  Lager, che gli si presenta in “stridente contrasto con tutto ciò che sino allora egli aveva considerato possibile e accettabile dall’uomo” (J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, Torino 1987, p. 40). Essa gli appare sconcertante, incomprensibile perché immorale e, viceversa, immorale e  inaccettabile perché assurda. “All’inizio – scrive – per lui valeva una sorta di folle saggezza ribellistica secondo la quale certamente non può esistere ciò che non è lecito che esista” (ivi, p. 41).
All'amaro stupore e sconcerto, agli scongiuri di rito, del tipo: “non può essere”, spesso, però,  poi seguiva nell'anima dell’intellettuale, una volta costretto a  riconoscere come “possa esistere ciò che non deve esistere”, con  il crollo della sua prima resistenza interiore, un mettere in questione e poi un rifiuto dei valori morali: “Sì, se le SS potevano agire come agivano: non esiste alcun diritto naturale e le categorie morali vanno e vengono come le mode” (ibidem).
“La vergogna è il sentimento dominante dei sopravvissuti” (p. 81) scrive Agamben e cerca di capire le ragioni di questo, di primo acchito, inspiegabile sentire. Scarta immediatamente la spiegazione che i superstiti, nella quasi totalità, danno di questo sentimento, di questa tonalità emotiva, riconducendola a un vago “senso di colpa” per esser vivi al posto di un altro.
Esclude anche che il senso di colpa del testimone  possa essere interpretato nei termini di un conflitto tragico. Secondo la celebre interpretazione hegeliana del tragico, l’eroe diviene colpevole non volontariamente, non intenzionalmente, ma fatalmente (p. 89). C’è dunque un conflitto tra innocenza soggettiva e colpa oggettiva, e tragico è l’atto mediante il quale l’eroe plasticamente assume incondizionatamente su di sé le colpe che è stato destinato a compiere.
Ora il Befeflnotstand, lo “stato di costrizione conseguente a un ordine”, invocato da Levi a proposito dei membri del Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei condannato a servire alle camere a gas e ai forni crematori, con l’invito a sospendere ogni giudizio riguardo alla loro condotta, e poi invocato dagli avvocati degli ufficiali nazisti (Eichmann e Stangl) per scagionare i loro i clienti, per giustificare le loro azioni, rende, secondo Agamben, “impossibile ad Auschwitz ogni conflitto tragico”. Non c’è più qui infatti assunzione di una colpa oggettiva da parte di un eroe soggettivamente innocente. Il superstite “Con un’inversione che rasenta la parodia, si sente innocente esattamente per ciò di cui l’eroe tragico si sente colpevole e colpevole là dove questi si sente innocente” (p. 90). Che non ci si vergogni poi per essere sopravvissuto ad un altro, lo prova, secondo lo studioso, al di là di ogni dubbio, un episodio riportato da Antelme. Durante le folli marce a cui le SS, incalzate dagli alleati, sottoponevano i prigionieri per trasferirli da un campo all’altro, venivano fucilati lungo il tragitto tutti coloro che ritardavano il cammino. Talora, tuttavia, le vittime venivano scelte a caso, senz’altra logica che quella del terrore. Un giorno la scelta cade su un giovane studente italiano, che, per la vergogna, arrossisce violentemente. Ebbene, riflette Agamben, egli non arrossisce per la vergogna di  sopravvive ad un altro, ma per la vergogna di “dover morire” e il sentimento che egli prova in quel momento richiama alla memoria la vergogna da cui è assalito Josef K nell’ultima scena del Processo, quando viene brutalmente assassinato e sta per “morire come un cane”. Dunque cos’è la vergogna? Non è la consapevolezza di un difetto, di una manchevolezza, di un’imperfezione da cui prendiamo le distanze, come vorrebbero i moralisti, ma, piuttosto, secondo l’analisi di Emmanuel Levinas, un non poter prendere le distanze, un “essere consegnati a un inassumibile” (p. 97). Essa si fonda dunque sull’impossibilità di desolidarizzarsi da sé del nostro essere, sulla sua incapacità di rompere con se stesso e presuppone un doppio movimento di soggettivazione e di desoggettivazione.
Essa – annota Agamben – è nulla di meno che il sentimento fondamentale dell’esser soggetto, nei due sensi – almeno in apparenza opposti – di questo termine: essere assoggettato e essere sovrano” (p. 99). In questa prospettiva viene interpretata la vergogna che Ettore prova dinnanzi al seno nudo della madre, in quanto essa è insieme un guardare ed essere guardato, è come l’esperienza di “assistere al proprio esser visto e di essere preso a testimone di ciò che si guarda”. Ma torniamo alla questione centrale. Levi, lo ricordo, scrive : Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri [...], sono loro, i “musulmani”  i testimoni integrali; ma chi ha visto la Gorgona, chi ha toccato il fondo, non è tornato per raccontare, o è tornato muto. Sono loro la regola, noi l’eccezione. Noi, toccati dalla sorte, abbiamo cercato [...] di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso per “conto terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio”. La testimonianza, commenta Agamben, tirando le conclusioni, costituisce  allora un processo assai complesso che coinvolge almeno due soggetti: il primo, il superstite, che può parlare ma che non ha niente d’interessante da dire, e il secondo, colui che ha toccato il fondo, e ha perciò molto da dire ma non può parlare. Pertanto conclude Agamben occorre intendere la testimonianza come un atto di autore (p. 140), che implica e comporta sempre una dualità essenziale,  e che consiste nel portare a compimento, integrare, perfezionare un’insufficienza, un’incapacità di testimoniare. Il soggetto etico è dunque – scrive lo studioso –  quel soggetto che testimonia di una desoggettivazione (p. 141).

Etico è testimoniare per colui che non può testimoniare, integrare e compiere ciò che altrimenti resterebbe incompiuto.
di Isabella Adinolfi pubblicata sul sito web di Orthotes Editrice